13/12/2007 10:34
Cultura
Sabato 15 dicembre ore 17 nelle Antiche Stanze di Santa Caterina
Si inaugura la 'personale' di Raffaello Gori
E' intitolata 'L’ombra del colore perduto'. Proseguirà fino al 5 gennaio 2008.
Una mostra personale dell'artista pratese Raffaello Gori sarà inaugurata sabato 15 dicembre alle 17 nelle Antiche Stanze di Santa Caterina. E' promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Prato, con il patrocinio della Regione Toscana, dell'assessorato alla Cultura della provincia di Prato
e del comune di Carmignano, in collaborazione con la galleria Schema Cantiere dell’Arte Alberto Moretti.
La mostra, che ha per titolo “L’ombra del colore perduto”, proseguirà fino al 5 gennaio 2008: verranno esposti i lavori degli ultimi anni della ricerca dell’artista ed alcuni lavori degli anni settanta, tutti incentrati sulla trasparenza. Le sale dell’esposizione ospitano questo percorso, come a rievocare un viaggio nel tempo e nei colori che, sotto l’involucro di carta protettiva, s’accendono per poi stemperare ancora la propria materia nei siderali bianchi e neri.
Si passa così attraverso trenta anni di ombre e colore, di ragione e passione che si abbracciano confondendosi, per dividersi e confondersi ancora. Tutto con una forma, data dalle campiture di colore, che sembra sfuggire ogni volta che proviamo ad afferrarla.
Aperura al pubblico
Gli orari: 10.00-13.00/15.00-18.00.
Chiuso martedì e festivi.
Sandro Parmiggiani nel 2003 su Raffaello Gori
“Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta Gori sembrò di fronte a un bivio - quello, esistenziale, così bene evocato da Robert Frost in The road not taken: delle “due strade” che “divergevano in un bosco”, il poeta ricorda di avere intrapreso la seconda, proponendosi di tenere “la prima per un altro giorno”, e arrivando alla fine del suo percorso a concludere, con una qualche amarezza, che “ciò ha fatto tutta la differenza”. I Bianchi trasparenti di Gori, nei quali egli faceva ricorso alla carta velina dipinta a tempera, incollata sul retro della tela - come se volesse in un qualche modo misurarsi, pur segnato da un’intatta nostalgia della pittura, con l’indagine sui meccanismi del vedere portata avanti da Giulio Paolini -, lo avrebbero condotto su una strada difficile ma appassionante, in un qualche modo vicina a suggestioni minimaliste sulla percezione dell’immagine e del colore.
Il nucleo peculiare della ricerca di Gori emergeva ormai nitidamente: l’incertezza perenne della visione e l’impossibilità di coglierla pienamente. Quando, infatti, essa a noi si offre con troppo spavalda sicurezza di forme e colori, non ci rivela la sua verità ultima: ecco dunque il bisogno di spegnerla nei toni, o addirittura di frapporre un sipario, un velo tra chi guarda e la rappresentazione. Gori incollava delle carte veline bianche sulla superficie dipinta, per spegnere l’impatto del colore
o ricorreva a tessuti e plastiche non completamente trasparenti, che venivano a costituire una sorta di barriera visiva, di sipario, di tenda, che impediva alla luce di interagire con il colore dipinto - dando vita a una sorta di terrain vague, di terra di nessuno, uno spazio vuoto, un altrove conteso tra il colore e la sua schermatura E tuttavia Gori non volle o non seppe attenuare il fervore della propria ricerca: pensiamo all’utilizzo di strisce di polistirolo, con i loro ritmi geometrici, di plastiche, di compensati, sui quali interveniva la pittura, in opere segnate dal gusto della materia, sia nel senso della sua percezione tattilmente visiva, che dell’evocazione di una forma. Quasi che Gori fosse affascinato e inseguisse, pur attraverso il corpo della materia di Burri e Tàpies, il vento di spiritualità contemplativa e misticheggiante di Maleviã e di Rothko. L’opera diventò, soprattutto quando si era decantata la furia magmatica e vitale delle forme e dei colori, il luogo di incontri, di rapporti tonali e formali, di evocazioni di memorie lontane, di affioramenti di brividi e tumulti, di tensioni e di abbandoni.
Sembra, questo cammino di Gori che abbiamo sommariamente tentato di delineare, un percorso di ritorno alle origini, ed è del tutto naturale che, in questo transito, l’artista riprenda, fin dalla metà degli anni Novanta, le esperienze di spegnimento della visione, sia dell’immagine che del colore, già avviate alla fine degli anni 70. L’utilizzo, come schermo opacizzante, della carta velina e della plastica diventa ora prevalente: pare, l’artista, dopo tanti anni, riprendere la strada che scelse di non imboccare, e lo fa, ovviamente, carico delle conquiste che è venuto facendo negli anni. Forse, quando per la prima volta Gori aveva praticato il “raffreddamento” della visione attraverso il diaframma della carta velina, dei tessuti, delle plastiche, temette di essersi incamminato su una strada senza uscita, sentì forse di essersi spinto in una terra inabitata e di avere bruciato ogni ponte alle spalle - del resto nessuno, a parte qualche sensibile addetto ai lavori, parve “vedere” quelle opere. Queste sue rappresentazioni hanno un’immaterialità e un’inconsistenza che ci affascinano: le cose che lui raffigura sono penetrate dall’aria, proprio perché non sono solide e resistenti: paiono fragilissime, come la carta velina che le scherma, eppure sono là, che resistono al nostro sguardo, distanti da noi, ma portatrici di una bellezza e di un mistero che accendono la fantasia e il desiderio”.
Raffaello Gori, biografia
Diplomato in grafica pubblicitaria all’Accademia Cappiello di Firenze, pittore e designer inizia ad esporre in mostre personali e collettive nel 1972. Dopo un periodo di ricerca dell’imprinting figurativo (1972/1973) il suo lavoro si svolge nell’ambito dell’astrazione purista per arrivare al monocromo (1974/1978).
A questo punto scatta l’intuizione concettuale (1979/1985), rovesciando la tela e rincominciando da capo. Questa operazione deriva dall’aver individuato la polivalenza del medium del supporto, nell’averne scoperto un ulteriore potenziale comunicativo. Le veline bianche incollate sul legno della tela dipinta, poi l’uso della plastica trasparente e ancora “polistirene”, materiale plastico specchiante. Nel 1986 la sua pittura si dispone attraverso un linguaggio, che affida al calore e alla magmaticità gessosa nonché agli objects trouvès: cartoni, legni, porte, finestre, scarti edili, brandelli di tappeti antichi, gommoni, lastre per stampa ecc. Fino a ritrovare negli anni attuali 1997-‘98-’99 gli stilemi iniziali (bianchi, rosa, gialli) delle levità delle superfici trasparenti tradotti in una oggettualità spaziale istallativa che tiene conto del luogo tramite variabili cromatiche basate sulla luce naturale e artificiale riflesse e irriflesse.
Esposizioni personali: 1981 galleria Fumagalli Bergamo; 1979 Studio Inquadrature 33, Firenze; 1982 Expo Arte bari; 1882 Il Pozzo Città di Castello; 2000 Museo dell’Università di Madrid Spagna
1279/07
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